Come si concilia lo stile reportage con la fotografia di matrimonio?

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Non esiste il fotografo di matrimoni, esiste il fotografo e basta. Lo riconosco: è un’affermazione molto popolare tra i fotografi matrimonialisti e può sembrare una maniera di porsi un po’ arrogante. Non è così, dire che “esiste il fotografo e basta” significa affermare un concetto molto semplice: ogni fotografo ha una visione unica e personale che si riflette in qualsiasi situazione stia fotografando.

In generale quando fotografo cerco sempre di rappresentare una realtà che mi appartenga, che non sia il semplice ritratto di quello che si vede. Il grande fotografo Franco Fontana dice: «l’artista, fotografando, inventa soggettivamente la sua realtà». Certo, quando fotografo quello che mi va, nel tempo libero, cercare di seguire questa attitudine alla fotografia è più semplice, con un certo esercizio diventa anche naturale. Ma quando si tratta di matrimoni diventa più complesso. La fotografia di matrimonio è un tipo di fotografia che è di per sé piuttosto rigida e schematica, sembra lasciare pochissimo spazio alla fantasia, e trovare un modo per conciliare certe situazioni imprescindibili con l’inventiva diventa davvero arduo. Basti pensare alla scaletta di una cerimonia, una sequenza di eventi ben codificata e quasi sempre uguale: pre-cerimonia con la vestizione degli sposi, la cerimonia vera e propria, il ricevimento, la festa... A lungo andare questa ripetitività di situazioni rischia di inaridire la fantasia e inventare soggettivamente la realtà, per parafrasare Fontana, diventa difficilissimo. Bisogna trovare un compromesso, allora, per non rischiare che la routine possa far diventare terribilmente noioso anche un bellissimo mestiere come quello del fotografo di matrimoni.

Mi sono chiesto per molto tempo come affrontare il problema della routine, come superarlo. C’è stato un periodo, molti anni fa, in cui non riuscivo più a trovare lo spirito giusto per affrontare i servizi fotografici di matrimonio: mi sembrava di fare sempre le stesse fotografie. Perfino i soggetti mi sembravano sempre gli stessi: cambiavano i volti degli sposi, ma le uniche cose che vedevo erano un abito bianco e un abito nero. Non riuscivo più ad andare oltre a questo. Con il tempo i miei scatti avevano assunto una schematicità quasi ossessiva: il matrimonio era come andare al cinema per vedere film con personaggi diversi, ma tutti con la stessa identica trama. A un certo punto ero così stufo che ero arrivato a chiedermi se, dopo tanti anni, non fosse la fotografia stessa ad avermi stancato. «Fare foto non mi appassiona più come un tempo?», mi domandavo ogni volta che la noia e la stanchezza sembravano vincere su tutto.

No, naturalmente. Mi piaceva ancora fotografare, mi piaceva ancora moltissimo. Al di là del lavoro, la fotografia era davvero la mia vita. Me ne rendevo conto soprattutto nei periodi di vacanza, quando mollavo la routine quotidiana. Già solo una gita di una giornata rinvigoriva subito la mia passione per le immagini. Quando si trattava di un viaggio più lungo, la prima cosa che preparavo era sempre l’attrezzatura fotografica. Sistemando nello zaino le ottiche immaginavo già le foto che avrei scattato una volta arrivato a destinazione; riponevo con cura il 35 mm, il 50 mm, l’85 mm sognando tutte le possibili situazioni che avrei incontrato sulla mia strada e che mi sarebbe piaciuto immortalare. Progettavo il mio viaggio anche in base a quello che mi sarebbe piaciuto fotografare: a volte partivo con l’idea prevalente di scattare fotografie di paesaggio, altre volte preferivo di gran lunga divertirmi con della street. La maggior parte delle volte, però, la mia idea era quella di realizzare dei reportage, di documentare e raccontare le giornate degli abitanti del luogo che visitavo. Allora mi recavo nelle zone con meno turisti, cercavo di instaurare un rapporto con la gente del luogo e quando mi rendevo conto di essere stato accettato, cominciavo a ritrarli al lavoro e nelle loro occupazioni quotidiane. In quei momenti mi rendevo conto che fotografavo con totale naturalezza, non dovevo nemmeno sforzarmi di cercare la situazione interessante per spingere il mio indice a scattare, era come se le fotografie venissero da sole da me. Durante quei viaggi mi riappacificavo totalmente con la fotografia e mi rendevo conto che per un certo periodo anche i servizi di matrimonio ne beneficiavano molto. Qualche volta, oltre le fotografie più classiche, scattavo qualche fotografia con lo stesso spirito che mettevo nei miei piccoli reportage di viaggio. Questo mi faceva stare davvero bene.

Riguardando le fotografie in studio mi rendevo conto che quelle che scattavo per me non erano altro che frammenti di un reportage. Quando mi liberavo dall’idea della “foto di rito” cominciavo a fotografare come se, invece di trovarmi a un matrimonio, mi trovassi in uno dei miei viaggi in India, in una strada di Calcutta affollatissima e brulicante di gente o tra i colori del Kumbh Mela, o in certe situazioni che non avrei mai più

rivissuto in vita mia. Mi rendevo conto che anche durante un servizio di nozze c’erano dei momenti unici e irripetibili, ed era bello e divertente immortalarli nella maniera più spontanea e naturale possibile, come se li avessi incontrati per caso per strada. Servizio dopo servizio quei momenti diventavano sempre di più l’unica cosa che per me contava davvero raccontare, e pian piano prendevo coraggio e mostravo anche le mie fotografie alle coppie di sposi. La felicità nel vedere la meraviglia sul loro volto mi regalava emozioni che non avevo mai provato prima. Avevo trovato una chiave per tornare ad apprezzare a pieno il mio lavoro.

In studio mi stupiva anche scoprire che alcuni scatti di matrimonio avevano molto in comune con quello che mi colpiva durante i viaggi. C’erano inquadrature, composizioni e dettagli simili. La libertà di scattare secondo il mio gusto metteva in moto un meccanismo inconscio che produceva fotografie in un certo senso “simili”. Con il tempo, introducendo sempre più consapevolmente la fotografia di reportage all’interno della mia wedding photography, ho notato che le coincidenze erano numerose. La fotografia di una sposa che scende le scale di casa, con la mano in primo piano, la ritrovavo nella fotografia di alcuni pescatori indiani intenti a raccogliere il pesce dalle reti; gli sguardi in direzioni opposte di una sposa e della sua damigella, sedute su un divanetto bianco, erano gli stessi sguardi di due giovani bramini seduti sui gradini di una scuola, persi in chissà quale pensiero. Qualche volta la coincidenza era in una scelta stilistica: il mosso di una situazione di street photography, lo sfondo sfumato e appena riconoscibile, ritornava nell’immagine di una sposa che corre con il bouquet in mano.

Certe cose non si sanno mentre si scatta. Ogni fotografo ha il proprio stile perché ha una propria esperienza e un proprio bagaglio culturale che lo distingue dagli altri. Ogni fotografo ha le proprie preferenze e la proprie passioni che lo guidano in una continua ricerca stilistica. Per quanto mi riguarda, il reportage non è solo uno “stile”, un’etichetta per identificare un certo modo di scattare le foto; per me il reportage è un’attitudine alla fotografia, rappresenta ciò che sento più vicino al mio modo di guardare il mondo. Non ho introdotto il reportage nella mia fotografia di matrimonio per una questione di moda, perché negli ultimi anni incontra un sempre maggiore successo, ed è sempre più richiesto. L’ho introdotto perché è in grado di rappresentare al meglio il mio modo di essere, il mio sguardo sul mondo; perché penso che la fotografia di reportage sia il modo migliore con cui posso offrire agli sposi un servizio in cui ritrovare davvero se stessi e le emozioni che hanno vissuto in quel particolare giorno della loro storia d’amore.

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Da papà di un bambino e di una bambina.